Zerocalcare, da Kobane a Reggio Calabria: storie di armadilli e di guerriglia

zerocalcare1di Fabio D. Palumbo e Chiara C. Basile - Il 13 gennaio 2017, a Reggio Calabria, nei locali della "Sala Federica Monteleone" di Palazzo Campanella (sede del Consiglio regionale della Calabria), l'arcinoto fumettista italiano Zerocalcare è stato ospite di un'iniziativa promossa dal Co.S.Mi. (Comitato Solidarietà Migranti), dal C.S.O.A. "Angelina Cartella" e dal C.S.C. "Nuvola Rossa". Occasione dell'incontro è stata la presentazione del volume "Kobane Calling" (2016), lavoro in cui Zerocalcare racconta sotto forma di reportage grafico il viaggio che lo ha spinto fino al confine tra Turchia e Siria, nei pressi di Kobanê, a condividere le esperienze dei combattenti e dei civili curdi della regione autonoma del Rojava, opposti alle milizie dell'ISIS nel conflitto che da anni ormai insanguina quelle terre. A coordinare l'incontro il fondatore/direttore dell'Accademia del Fumetto di Reggio Calabria, Antonio Federico.

La sala di Palazzo Campanella è stata letteralmente presa d'assedio da uno stuolo di fan dal profilo anagrafico e socioculturale molto vario e composito, a testimonianza della ritrovata pervasività del fumetto come forma di cultura popolare nel nostro Paese, anche grazie a fenomeni editoriali come Kobane Calling e alla figura di icona generazionale del trentenne fumettista romano (aretino di nascita), che con il suo stile informale, diretto e a volte sopra le righe, con il suo inconfondibile eloquio romanesco e la sua disarmante sincerità, ha tenuto banco riscaldando una fredda serata d'inverno con un racconto di rara umanità, in uno scenario assieme vicino e lontano, lungo un percorso che si è snodato tra il Kurdistan e Rebibbia, tra il presente e gli anni Novanta. Vi lasciamo allo scambio di domande e risposte tra i moderatori, il pubblico e Zerocalcare.

Antonio Federico: Facciamo subito una battuta. Zerocalcare è qui da noi per la prima volta, qui a Reggio Calabria e in Calabria. Non è stato facile, perché dopo l'Iraq arrivare in Calabria, insomma... Si parlava delle vie di comunicazione, non è stato facile esser qui, per cui siamo tutti contenti e diamo il benvenuto a Michele Rech, perché è conosciutissimo da tutti come Zerocalcare, ma questo ragazzo sensibilissimo, che ci racconterà oggi [la sua esperienza], ha un nome e cognome.

Zerocalcare: Sensibilissimo... [ride].

A: Io rappresento l'Accademia del Fumetto di Reggio Calabria e lavoro alla Commissione anti-'ndrangheta della Regione Calabria. Cerchiamo di sensibilizzare [sul tema della criminalità] attraverso il fumetto, nel mio piccolo sto cercando di dare un contributo per quello che può essere comunque il nostro bacino, e [fare in modo] che tra i calabresi la nostra voce sia ben alta. Bisogna far sentire ciò che anche dalla Calabria si vuol fare emergere: un bisogno di cultura. Il fumetto è una forma di comunicazione efficacissima, un'immagine diretta che arriva al cuore e alla mente di tutti. Passo subito la parola a Zerocalcare, per raccontarci un po' quindi questi viaggi: che cos'è Kobane Calling?

Z.: Intanto ciao, vi ringrazio un sacco per l'invito, grazie per essere venuti. Mi sono trovato molto bene, da ieri sera a oggi: a parte che me stanno a fà magnà un botto, sto morendo per questo, ma a parte questo mi sto sentendo una cifra a casa, quindi sono molto contento di chiudere così questo tour di presentazioni. Su Kobane Calling... cos'è? È un diario di viaggio che nasce in realtà da tutta una genesi che è un po' anomala. Non nasce dall'idea di farci un fumetto, il viaggio stesso non nasce [con questo intento]. Mi dispiace per chi stava a Cinquefrondi stamattina, perché ripeto la stessa cosa. Io sono cresciuto più o meno all'interno degli spazi occupati, ho iniziato a frequentarli tra i 15 e 16 anni circa, e sono esattamente gli anni in cui il presidente del PKK, il Partito dei lavoratori curdo, Abdullah Öcalan, arrivava a Roma come richiedente asilo politico [nel 1998, n.d.A.]. Con lui un sacco di Curdi, [esponenti] di tutta la diaspora curda europea e non solo, si recavano a Roma per sostenere quella richiesta e stavano di fatto in mezzo alle strade, sotto l'ospedale dov'era detenuto Öcalan stesso. Avevano bisogno di tutto, quindi i centri sociali di Roma si son fatti un po' carico dell'accoglienza dei Curdi, gli portavano da mangiare, le coperte, etc. Io la ricordo come un'esperienza particolarmente significativa in quel momento della vita mia. Tra l'altro io e i miei amichetti di Rebibbia, che eravamo un po' dei ragazzini-teppa, per la prima volta vedevamo gente che faceva a schiaffi con la polizia. Fu una cosa che ci colpì molto all'epoca e quindi in qualche modo questo rapporto con la causa curda è andato avanti — per me personalmente sul piano emotivo, ma più in generale per tutti i centri sociali romani.

Poi è successo che nel corso degli anni c'è stato un calo di attenzione reciproco tra noi e i Curdi rispetto a quello che facevamo, ognuno ha avuto i ca**i suoi a cui pensare per un sacco di tempo... fino a che, appunto, ormai circa tre anni fa, i giornali mainstream hanno iniziato a parlare dell'assedio di Kobanê da parte dell'ISIS. Lo facevano in modo molto spettacolare, parlando diffusamente di queste donne curde guerrigliere, bellissime donne guerriere, ovviamente non ne parlavano mai a fondo, nel senso che non si capiva mai come si fosse giunti a quella situazione. Come mai in quella parte di mondo c'era una città in cui le donne avevano una formazione femminile armata autonoma, quella roba lì non veniva mai spiegata... perciò questa vicenda ha avuto un po' il merito di far accendere le spie su questa questione. [Allora], abbiamo richiamato i Curdi e gli abbiamo chiesto: potete spiegarci un po' cosa sta succedendo? E loro ci hanno raccontato una cosa che io personalmente ignoravo del tutto, ma penso che tanti di noi non avessero avuto se non una qualche eco lontana di questa cosa: e cioè che, in realtà, in quella parte di Siria — che è la Siria del nord al confine con la Turchia, ma anche il Kurdistan siriano, che si chiama per l'appunto Rojava — era in atto una rivoluzione. Dall'inizio della guerra civile [siriana], che aveva visto vacillare il potere di Assad, era [in atto] una rivoluzione che "parlava la lingua nostra", nel senso che metteva al centro la liberazione della donna, la redistribuzione del reddito, la convivenza tra culture, popoli e religioni, un rapporto col territorio di tipo ecologico e non di depredamento.

Di qui è venuto naturale, per tutti quelli che erano seduti al tavolo [con me] quel giorno, pensare a cosa fare per comprendere ed essere d'aiuto in questa storia: portare medicine, fare qualcosa per sostenere quell'esperienza, ma anche imparare da qualcosa che ci sembrava molto più avanzata di noi. Ricordo che ci siamo alzati pensando: vabbè, dobbiamo annà là. Una cosa del genere però uno la dice... e io l'ho pure detta con grande entusiasmo e spinta, pensando però [dentro me] "col ca**o che ci andremo mai". Poi però il viaggio è nato velocissimamente: se non sbaglio c'erano già napoletani e bolognesi, che erano partiti subito, senza dir niente a nessuno, e avevano stretto i primissimi contatti con la popolazione di un villaggio alle porte di Kobanê sul versante turco, ma in linea d'aria a un chilometro da Kobanê.

Avevamo preso contatti, insomma praticamente in un attimo si è manifestata quest'idea di fare una staffetta vera e propria, una staffetta romana per Kobanê, per capire quali erano le esigenze della popolazione, e poi darsi il cambio con qualcuno che sarebbe arrivato dopo, in modo da fare un intervento continuo in quel territorio. Ed è venuto fuori che noi eravamo la prima di queste staffette, per cui lì per lì ho pensato: "In che ca**o mi sono infilato?". Questa prospettiva mi agitava moltissimo in quel periodo... Erano tra l'altro i giorni in cui cominciavo a realizzare che ormai la mia fonte di reddito primaria erano diventati i fumetti piuttosto che le ripetizioni (avevo appena lasciato il ragazzino a cui facevo ripetizioni, perché non riuscivo più a stargli appresso), per cui ho pensato: "Adesso faccio questa cosa, vado su Internazionale (che era una rivista su cui lavoravo ogni tanto facendo delle vignettine sceme settimanali) e gli propongo di fare un diario di questo viaggio". In cambio mi faccio dare un tesserino da giornalista, ho pensato, così sicuramente quando andiamo là, di fronte all'esercito turco, alla polizia turca in aeroporto, etc., se ci fermano, esibiamo questo tesserino da giornalista. Quando sono arrivato da Internazionale con questa richiesta, mi hanno risposto: "Ma che, sei scemo? Punto primo non possiamo farti un tesserino perché non sei un giornalista! Possiamo farti magari una lettera d'incarico... E poi figurati se possiamo fare il tesserino da giornalista agli amici tuoi che non sappiamo manco chi siano". Be', alla fine questo tesserino ce lo siamo stampato noi in realtà! Ci abbiamo scritto su "International Press" col logo di Internazionale fintissimo, una cosa che in un qualsiasi paese avanzato con accesso a Internet su uno smartphone sarebbe stata smascherata come una menzogna, e invece... tutto sommato ha funzionato, perché hanno abboccato, va'!

Comunque a Internazionale ormai avevo detto della cosa, avevamo anche speso il loro nome con questo tesserino falso, perciò quando siamo tornati ho pensato: "Mo' gli faccio questo fumetto". Quindi il viaggio è nato in un progetto di solidarietà, ma il fumetto è nato per caso. In verità — e poi qui chiudo il "pippone" — era andato molto bene il fumetto ospitato su Internazionale, soltanto che a un certo punto mi è sembrato di stare facendo un'operazione che era un po' una "zozzeria". Intendo: le prime quaranta pagine di Kobane Calling, che fanno parte di quel primo reportage per la rivista, mi sembrava fossero un po' "paracule", che spingessero molto sull'aspetto "emo", emotivo, 'sta roba del cuore; però, in qualche modo, non stavo riuscendo ad andare a fondo di quello che volevamo raccontare, ovvero cose come "questa rivoluzione è vera o non è vera, funziona o non funziona".

Noi in questo primo viaggio eravamo rimasti sul confine, e vedevamo Kobanê, che era una città in guerra dove si combatteva, dall'altra parte del confine, ma non sapevamo [altro] sostanzialmente. Kobanê era una città in cui c'erano soltanto combattenti, per cui non potevi appurare se fosse democratico questo sistema di governo proposto dai Curdi, se funzionasse o meno, perché naturalmente, durante i combattimenti, questa cosa è molto relativa. Non lo so, mi era venuto il pallino di ritornare, magari in una zona — benché tutto il Rojava sia in guerra — a 10, 15, 20 km dal fronte, dove magari si svolgesse la vita quotidiana; ci tenevo a capire se questa roba [della rivoluzione] era vera o no. Magari non l'avrei raccontato se fosse stato tutto finto, magari mi sarei fatto i ca**i miei, non avrei detto "i Curdi sò stro*zi". Se invece avessi scoperto che era tutto vero, mi sarebbe venuta voglia di raccontarlo!

E quindi siamo tornati questa volta con l'idea di raccontare quell'aspetto, con l'idea di farne un fumetto, un racconto, quello che ne sarebbe venuto fuori, e così sono nate le altre duecento pagine del libro. Lo spoiler che posso fare su ciò che è venuto fuori è che obiettivamente 'sta roba è vera, nel senso che è vera con tutte le contraddizioni del mondo, con tutte le contraddizioni fisiologiche della realtà di un paese in guerra, in cui ci sono tante emergenze che son prioritarie rispetto alle altre cose. Nonostante ciò, tutti i principi che vengono enunciati all'interno della carta, del contratto sociale... è una tensione che effettivamente si vede molto bene, è molto palpabile, e molte cose sono anche concrete, ma magari ne parliamo dopo, senza che attacco una "pippa" infinita [sorride].

A: Bene. Io ho letto Kobane Calling e intanto, generalizzando, va premesso che il fumetto che possiamo trovare in edicola è molto diverso da un graphic novel. Il graphic novel ['romanzo grafico', n.d.A.] è un prodotto autoconclusivo. Si tratta di un romanzo, un romanzo ricco, un romanzo illustrato, in questo caso si contano trecento pagine, quindi c'è stato un prosieguo di questo lavoro [le due fasi di gestazione dell'opera di cui ha parlato Zerocalcare, n.d.A.]. Rientriamo all'interno del graphic journalism, quando un fumetto diventa veramente un reportage di quello che accade nel mondo, quindi sicuramente qualcosa di non facile da raccontare. Tu riesci a raccontare con semplicità, quindi con un flusso anche veloce, quelle che sono delle scene anche molto crude, dei fatti molto violenti, toccando temi come l'ISIS... Si parla di persone che si fanno esplodere quotidianamente, c'è veramente all'interno di quest'opera un'informazione molto veritiera, spesso neanche raccontata dai giornalisti in televisione. Abbiamo un rapporto diretto con quello che i tuoi occhi hanno visto, quindi questo dà anche più spessore al tuo prodotto.

Z: Sì, guardandolo adesso ci trovo mille cose maldestre, o cose che comunque avrei potuto fare meglio, però secondo me il mezzo fumetto ha un super-vantaggio rispetto ad altre [forme espressive]. Come posso dirlo senza sembrare scemo? Il reportage video o le fotografie riescono ad essere sicuramente molto fedeli dal punto di vista della realtà. Cioè, se vado a fare un report fotografico di ciò che sta succedendo a Kobanê, nelle foto riesco a riprodurre in maniera molto fedele le case, il paesaggio, gli scenari, o i volti nei ritratti... Col fumetto ovviamente, col disegno, mi avvicinerò tanto più a quella realtà quanto più sarò bravo a disegnare, ma ci sarà sempre un filtro e una discordanza tra quello che disegno e quello che ci sta davvero. Il fatto che però il fumetto non sia costretto ad essere così fedele [rappresenta un vantaggio]: col disegno e la scrittura insieme puoi raccontare le emozioni che quella storia ti suscita, cose che magari non stanno lì, ma che quell'esperienza ti fa provare... in realtà riesci ad essere molto più fedele a quell'esperienza nel suo complesso, alle emozioni che vivi in quel momento.

E secondo me questo è il motivo per cui, quando manca questo tipo di narrazione emozionale, non ci appassioniamo a queste cause, che ci sembrano solo un insieme di luoghi, di nomi, di numeri che non riusciamo a collocare nella geografia, tanto che, sentendoli al telegiornale, ci entrano da un orecchio e ci escono dall'altro. Il fumetto secondo me ha la capacità di coniugare questi aspetti e comunque di farti appassionare alle storie che stai leggendo. Non dico che io ci sia riuscito, magari anche nella mia storia ci sono momenti macchinosi... sta alla bravura dell'autore, ma come mezzo il fumetto ha questa potenzialità.

A: In pochi anni hai pubblicato tantissimi volumi, hai anche cambiato molte cose. L'armadillo, che è nato insieme a te, in questo lavoro dove va a collocarsi? Questa tua coscienza si è [in qualche modo] tramutata [in qualcos'altro]?

Z: L'armadillo mi serve un sacco in realtà, perché è la parte più chiusa della mia coscienza. Se qualcuno legge fumetti, di solito sa che i pensieri delle persone sono rappresentati tramite le didascalie. Le didascalie sono una rottura di ca**o. Rendono il fumetto molto simile a un libro illustrato. Le storie mie, soprattutto quelle di vita quotidiana, sono storie in cui sto da solo in camera mia davanti al computer a farmi un miliardo di "pippe mentali" e paranoie, e questa cosa qua con le didascalie diventerebbe una specie di blocco unico, inavvicinabile per qualsiasi lettore... quindi mi sono immaginato di dialogare con la mia coscienza, per rendere la tavola più vivace, con canto e controcanto etc. In realtà questa cosa mi serve molto nei momenti in cui devo parlare con me stesso... Quando vado a raccontare una cosa come il viaggio in Siria, in Rojava, la funzione dell'armadillo viene molto meno, nel senso che effettivamente quello che vedo non ha bisogno dell'armadillo per raccontarlo.

Semmai, l'armadillo mi serve per raccontare quelli che sono i miei dubbi, infatti compare nei momenti in cui mi chiedo: "Mi stanno a raccontare una ca**ata o è vera 'sta cosa?". In questo libro l'armadillo divide questo ruolo con il mammut, che è il simbolo del mio quartiere, e che rappresenta la parte di me che è più attaccata a Rebibbia, alle mie abitudini... Dunque l'armadillo è stato privato di un altro pezzetto, però poi in realtà... mi è preso il singhiozzo [parte un siparietto esilarante in cui Zerocalcare confessa il suo imbarazzo di fronte a situazioni del genere, come il singhiozzo al cinema, n.d.A.]. E poi nella cosa a cui sto lavorando adesso, a cui vorrei lavorare, in realtà l'armadillo esiste, non è che scompaia.

A.: Allora rimane! È [un personaggio] importante anche per i lettori come me. Io ricordo ancora La profezia dell'armadillo, che ancora conservo. Zerocalcare, tra l'altro, è un fenomeno così grande... pensate, sul suo blog, per la striscia del lunedì, nel giro di dieci minuti si contavano diecimila mi piace. Pensate a quanto il fenomeno del Web abbia contribuito a questo successo. Il ruolo del Web nel riuscire ad essere così immediati, nel poter comunicare a un pubblico così vasto in pochissimi click. Oggi il lavoro del fumettista è cambiato. Non si va più a fare la fila in fiera, o comunque c'è anche questo. Oggi, per essere bravo, devi avere un tuo blog, devi essere seguito, devi avere tantissimi follower, e comunque il ruolo del fumettista è anche un po' più chiuso rispetto al passato [qui il moderatore intende che sia possibile svolgerlo nel chiuso della propria stanza, n.d.A.]. Si può infatti arrivare attraverso il Web o le e-mail anche in America in pochissimo tempo. Quanto ti ha aiutato il Web [nella costruzione del tuo successo]?

Z.: Sì, [mi ha aiutato]. Nel senso che io, prima, odiavo l'idea di fare un blog, onestamente! Perché i blog che non guarda nessuno danno una sensazione proprio frustante, deprimente. Scrivi il post del giorno dopo e pensi che nessuno si è letto quello del giorno prima, nessuno leggerà quello di oggi, nessuno leggerà domani... Questo, su un carattere insicuro, può portare veramente alla rovina. Però io avevo appena finito di disegnare La profezia dell'armadillo, che era il primo libro... era un'autoproduzione fatta da Makkox [Marco Dambrosio, fumettista e blogger, n.d.A.].

[Lui mi ha detto:] "Ma se tu non apri un blog, e nessuno ti conosce, 'sto libro te lo danno in faccia". E io: "No, no...". Così lui ha comprato il dominio e l'ha aperto. E allora mi dice: "Mettici su qualcosa", al che io: "No, no...". Lui poi ha fatto il template, e mi ha detto: "Beh, almeno postaci le storie". Ed io: "No, no...". È finita che ha postato lui le prime storie, che io gli avevo mandato per un'altra rivista [intitolata Canemucco, successivamente avrebbe chiuso i battenti, n.d.A.]. Nel portare avanti la cosa, Makkox si era spinto a trovarsi i suoi canali, aveva un serbatoio di lettori abbastanza ampio, un po' di gente aveva iniziato a commentare, e allora mi sono detto: forse non è proprio così triste, e ho iniziato a lavorarci sopra... e infatti è stato fondamentale, perché intanto ha trainato le vendite de La profezia dell'armadillo, ha fatto sì che gli editori mi contattassero, che la roba girasse gratuitamente nei social network, e quindi mi ha fatto conoscere [in giro]. Perciò sicuramente mi è servita un sacco questa cosa.

Non penso che basti questo, perché da un lato il problema di Internet è che è una roba sterminata e gigantesca. A me ha detto molto bene perché Makkox l'ha spinta e aveva già un suo serbatoio [di lettori] che si fidava già ciecamente di qualunque cosa lui proponesse. Se non ci fosse stata questa cosa di Makkox, può darsi che ci avrei messo quindici anni a farmi conoscere, magari non ne sarebbe fregato un cavolo a nessuno. Magari quando io, girando per i blog, in cerca di qualcosa da copiare, mi imbatto in qualcuno di molto bravo, e vedo che ha pochissimi commenti, pochissimi accessi, penso sempre che mi dispiace un sacco per questa gente, perché magari è molto più brava di me, ma non riesce a sfondare. È questo il problema di Internet, per cui non c'è ancora una soluzione. Poi se [il mestiere di fumettista] è più chiuso o meno chiuso [di un tempo]... è vero che lo puoi fare da Internet, nel chiuso della tua stanza, ma la verità è che hai un feedback grande come il mondo, e questo è, molto più del livello di marketing e di conoscenze, fondamentale per il mio lavoro. Io lo so benissimo come sono fatto. Io faccio fumetti da quando sono piccolo sostanzialmente, non sono mai riuscito a fare una storia lunga, perché a pagina 5-6 mi rompo il ca**o e cambio soggetto. Perché se una cosa te la fai in cameretta tua, da solo... io poi sono uno che, quando mi entrava mia madre in camera, mettevo le braccia davanti per non fargli vedere che cosa facevo. [Così facendo] non ricevi mai un feedback da parte di nessuno, e questa roba ti rimbomba nel cervello e ti stufa. Invece Internet ti dà il feedback della gente che commenta, poi ti commenta ancora se gli piace, o cerchi di capire perché non gli piace, se modificarla o andare avanti per la tua strada... Comunque sono tutti stimoli e ti fa andare avanti nel lavoro questa cosa. Se questa cosa ti manca... per me sarebbe proprio la morte.

A.: Assolutamente sì. Che poi attraverso il tuo lavoro sono nati moltissimi personaggi, dal vicino di casa, dalla stessa mamma, che tu visualizzi ovviamente non come degli esseri umani, ma come dei personaggi del mondo che ti circonda, dei cartoni animati, di serie TV o quant'altro. Lady Cocca [nome ispirato al personaggio del Robin Hood disneyano, n.d.A.] è tua madre... quando entra in camera tua, ci rivediamo, ed è fondamentale rivedersi attraverso le storie, avvertire delle emozioni significative, che comunque ci rispecchiano.

Z.: Questa è stata un po' la fortuna mia. Questa roba dell'identificazione... Ma non è roba che ho pensato a tavolino, del tipo: "Mo' faccio 'sta roba qua, così faccio i 'sordi'". Mi sa che mi è venuta un po' naturale, poi è stata una circostanza molto fortunata. Io non è che faccia una vita sovrapponibile a quella di tutti i lettori miei. Io sono cresciuto negli spazi occupati, che sono la marginalità; in più, negli spazi occupati, tra i punk, che sono la marginalità della marginalità; e per giunta, nella scena punk, tra gli "straight edge" [subcultura punk, spesso abbreviata in sXe, n.d.A.], cioè i "bacchettoni" che non bevono, non fumano, etc., quindi la marginalità della marginalità della marginalità. Quando facevo i fumetti pensavo: "Io sto a parlare a quattro persone, perché nella vita mia siamo in quattro, e quindi nessuno mi capirà". Poi ci sono state persone lontanissime da me, a volte anche "fuori" in maniera orrenda, che si riconoscevano [nel mio lavoro]. Lì per lì c'è stato un momento di sgomento rispetto a questa cosa, perché c'è anche l'orgoglio della propria specificità, e invece ci si accorge che non è [qualcosa di] così specifico. Così mi son reso conto che, oltre a queste specificità, c'è un patrimonio comune cui attingo tantissimo nei fumetti, quel patrimonio di cultura popolare, nello specifico della generazione mia, quello che va dai cartoni animati al cinema... è tutta roba che diventa poi un linguaggio comprensibile a un sacco di persone, perché tanti hanno condiviso queste esperienze, e io ho individuato questa cosa soprattutto quando facevo le storie sul blog, storie che necessariamente devono essere corte — sia perché sono gratuite, sia per i tempi di attenzione di Internet, bisogna essere abbastanza concisi. Di qui l'esigenza di utilizzare personaggi comprensibili a tutti... Ad esempio, se devo disegnare uno che è uno stron*o, o che ritengo sia stron*o... Bene, se dovessi raccontare tutti i motivi per cui lo penso, ci perderei un sacco di tempo e non sarebbe neanche interessante per i lettori. Se io invece lo rappresento come Dart Fener [il cattivo per antonomasia di Guerre Stellari, n.d.A.], tutti lo rappresentano in quel modo, e questa cosa mi fa risparmiare un sacco di tempo, poiché gioca su un meccanismo di identificazione e su una serie di culture e di esperienze [condivise].

zerocalcare2A.: Torniamo al tema del libro, del graphic journalism, di Kobane Calling. C'è qualcosa che, al di là del lavoro di fumettista, come persona ti ha molto colpito, ti ha scioccato, qualcosa che porterai sempre con te?

Z.: Un sacco di cose. È un viaggio che mi ha colpito un sacco. Di molte cose, lì per lì, al rientro, neanche mi sono reso conto... È un viaggio in cui abbiamo incontrato persone che sacrificano tutto per quella causa lì, che non è soltanto una causa di tipo militare, una lotta per vincere contro quella formazione o avere l'indipendenza; è anche una ricerca interiore, un tentativo di cambiare la società a partire da sé stessi. Son tutte cose che io ho sentito, e che, di fatto, quando torni nella frenesia del quotidiano, in tutti i ca**i che c'hai nella vita tua, metti un po' da parte. In realtà nella mia vita, in tutte le criticità della mia vita, ho ripensato a quanti insegnamenti ci hanno dato lì... mi hanno rimesso in moto dei meccanismi di eventi che ci son stati raccontati durante quel viaggio. Una cosa più di tutte ci ha colpito... Non lo so, mi ha colpito tanto perché è stato un tema che mi son portato appresso per un sacco di tempo.

Abbiamo tante immagini di Qandil, queste montagne di addestramento per l'esercito del PKK, e molto di quel girato e filmato era figo — ed era materiale mezzo inedito in Italia, nel senso che i giornali e le televisioni non lo facevano vedere, e noi avevamo la possibilità di farlo vedere in quel momento, tramite la RAI. Ci han detto: "Se c'è la tua voce narrante e ci dai del materiale, noi la mandiamo in onda". E però avevamo il problema che questi campi di addestramento avevano delle "pischelle" ['ragazzine', nel gergo romanesco, n.d.A.] molto giovani, e [nei video] si vedeva che si allenavano. Un po' perché queste ragazze, ammappete, sò molto giovani, e il tema dei soldati-bambini ti lascia perplesso... vedere delle pischelle così giovani allenarsi a usare un mortaio... Quindi ci chiedevamo, da un lato, come potesse essere recepito dall'opinione pubblica, ma, dall'altro, noi stessi ci ponevamo il problema. Per cui abbiamo chiesto [lumi] a qualcuno [del posto]. C'era una ragazzina di quattordici-quindici anni a fare questa cosa. E in effetti ci hanno detto: sì, sono molto giovani. Queste ragazze vivevano in un villaggio ai piedi di una montagna, e questa ragazzina in particolare veniva violentata sistematicamente dallo zio, ed era stata data in sposa a questo zio. Così questa ragazzina è scappata ed è venuta in montagna, perché sapeva che le guerrigliere erano un modello di donna libera che non avrebbe mai subìto quel tipo di minaccia e di oppressione. Ci è stato detto dai guerriglieri: "Noi cosa dovevamo fare? Dovevamo rimandarla indietro? La prendiamo [con noi]. Siamo guerriglieri e [naturalmente] gli facciamo fare la vita della guerriglia: c'è una parte di addestramento militare e una parte, tra virgolette, di educazione sessuale, del corpo, una parte di cultura generale, di etica, di politica, di storia" e di quant'altro. Queste sono le "accademie" dei guerriglieri. E le ragazze non combattono, non le mandano a combattere, fanno "la vita della guerriglia", ma non le mandano a combattere. Quando compiono diciott'anni, le ragazze scelgono se intraprendere la vita della lotta, quindi diventare a tutti gli effetti membri dell'organizzazione, dedicarsi a quella vita, o se ritornare nella società civile. Ovvio che questa roba ha una serie di criticità... se una persona cresce fino a diciott'anni facendo quella vita... Devo dire che è molto logico tutto ciò e ha molto senso. Abbiamo pensato: se facciamo passare questo in televisione, non verrà mai dato lo spazio di approfondimento per contestualizzare questa scelta, che poi è la più giusta, perché l'alternativa è lo zio che la violenta! Però non si poteva dare questa storia così, in pasto all'informazione... Nel libro la racconto, e la racconto col tempo mio, se mi voglio prendere dieci pagine per raccontare questa storia lo faccio, perché sono io a gestirlo, mentre i vari siti Internet o i giornali mainstream non ci davano questa garanzia, e quindi ce la siamo tenuta [per noi]. Però questa è una delle cose che mi ha colpito di più. Perché data in pasto all'informazione avrebbe potuto essere la cosa che ti straniva di più, invece, conoscendo [tutta] la storia, è uno degli aspetti più umani dell'intera vicenda.

A.: Ah, molto interessante questo, sicuramente è il lato molto più umano che interessa maggiormente. Ci sono anche delle domande da parte del pubblico, da parte vostra? Potete tranquillamente intervenire. È anche bello riuscire a fare una chiacchierata tra noi e Michele.

Z.: Ti fanno le domande, poi ti scrivono su Facebook mezz'ora dopo per chiederti una cosa, e, se non rispondi subito, ti dicono: "Sei una merda, te la tiri, etc." [ride].

A.: Vivacizziamo l'incontro!

Pubblico: Ciao, Michele, non ci conosciamo, piacere. Di cosa parlerà il tuo prossimo lavoro? Credo tu voglia un po' più di leggerezza, come un po' di tempo fa, sicuramente [sarà] un lavoro meraviglioso. Sai che ho letto tutto [quello che hai pubblicato]. Ecco, vorrei sapere di cosa parlerai. Se sarà una raccolta delle vignette del blog come hai fatto tempo fa, o se sarà una storia lunga come Kobane Calling.

Z.: Non ti posso rispondere in maniera precisissima, ma non perché il mistero uuuh... [in tono scherzoso]. È proprio perché c'è grande confusione in capoccia. Però ti posso dire che quando ho cominciato a fare questa roba (i fumetti, n.d.A.), con La profezia dell'armadillo e la prima raccolta del blog che è Ogni maledetto lunedì su due, ho provato a fotografare un po' la condizione mia e di chi mi stava intorno, che era sostanzialmente quella di una persona tra i 25 e i 26 anni che era cresciuta negli anni Novanta con tutta una serie di aspettative su quella che sarebbe stata la propria vita nel futuro, vedendo quello che erano i nostri fratelli maggiori, i genitori etc. Ci eravamo affacciati alla fine della scuola su un mercato del lavoro che si era completamente trasformato, ma noi non ce n'eravamo resi conto, [del cambiamento intervenuto] rispetto al modello che avevamo noi, per cui eravamo abbastanza smarriti e senza punti di riferimento. Tutti i personaggi che ho introdotto in quella fase, l'amico cinghiale, Secco, mi madre, me stesso, etc., nel corso degli anni, nei miei fumetti, sono rimasti piuttosto cristallizzati a quella fase lì... ma le vite nostre sono andate avanti, se non altro perché sono passati un bel po' di anni, e anche quello smarrimento è diventato una condizione di routine.

Anche nelle macerie uno prova a trovare delle collocazioni. Alcune cose sono peggiorate, altre sono migliorate, molti problemi sono cambiati anche per questioni anagrafiche, nel senso che io non mi sarei mai posto il problema degli amici che figliano, o di un'amica mia, che non riesce a fare un figlio e non è sposata, allora ci prova con la fecondazione assistita e deve andare a Copenaghen per farlo. Moltissime cose sono cambiate nelle vite nostre, ma nei fumetti non sono riuscito a raccontarlo diffusamente, perché i miei personaggi sono rimasti in quella fase lì. In realtà, in questo libro qui, all'interno di una storia più ampia come poteva essere Un polpo alla gola, che tiene un filo conduttore della cosa, vorrei fare una cosa che possa fotografare questo momento qui per noi. Se sfoglio La profezia dell'armadillo, a cui sono molto legato, ci vedo la fotografia di quel me stesso di allora, non del me stesso di adesso. Provo a riequilibrare... a riallineare il fumetto con la vita mia, diciamo. [Applausi da parte del pubblico] E Madonna mia, oh! [sorride]

Pubblico: Pensi che avrai in futuro altre esperienze di graphic journalism?

Z.: Questo libro è nato perché io avevo un'idea e un'esperienza biografica che poi mi è andato di raccontare a fumetti. Non c'è stato il procedimento inverso. Non è che sia stato mandato in un posto o mi sia messo a inseguire una causa perché volevo fare il giornalista. Non mi son messo in cerca di una causa da raccontare. Il meccanismo è stato inverso. Vorrei tendenzialmente che le cose continuassero in questa maniera. Anche perché se io non stavo "in fissa" per motivi miei con la causa curda, se mi facevo un anno ad andare a raccontare 'sta storia, mi ero già impaccato. Per cui per me è importante che sia una roba che c'entra con i miei interessi e le mie passioni.

Poi che possa capitare che per un'altra cosa, su Internazionale o altrove, io vada a raccontare qualcosa che mi sta a cuore... Che ne so? Mi hanno chiesto se mi andava di raccontare alcune cose legate a Trump, in America, tutto ciò che sò i populismi americani... È una cosa che nella vita m'interessa, quindi lo posso pure fare, però si tratta sempre di piccole cose. Ma un libro di graphic journalism dev'essere proprio una cosa che mi interessa nella vita quotidiana, sennò no!

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Pubblico: Mi ha colpito molto un episodio che riguarda la tua pagina pubblica su Facebook. Tu parlavi di un'iniziativa per Carlo Giuliani, e ti sei trovato a spiegare la situazione con gente che ti dava addosso. Gente che ti dovrebbe in teoria conoscere, perché se uno vede sulla pagina di Zerocalcare che si parla di Carlo Giuliani, può pensare che si tratti di un'iniziativa a cui tu partecipi... [quel qualcuno] dovrebbe anche conoscere qual è la tua idea a riguardo, quindi mi chiedo: esistono degli svantaggi nel tuo successo? Quali sono gli svantaggi e i vantaggi? Ci hai riflettuto, non lo so...

Z.: Quella storia lì è particolare. Chi è venuto a cac*re il ca**o sulla pagina, beh, si tratta di persone legate a "sindacatini" di polizia, associazioni vicine alla polizia, che in quei giorni, ma in generale da 15 anni, continuano a dare battaglia sulla narrazione di Genova... e comunque [la loro narrazione] funziona molto meglio della nostra. [Te ne accorgi] se parli coi ragazzi che non hanno vissuto il G8 di Genova... Perché nei commenti c'erano persone [schierate] da una parte e dall'altra, ma ho visto alcuni lettori miei che ti parlano di Carlo Giuliani come di un assassino. Mo', il dizionario parla abbastanza chiaro. Lì una persona sola è morta, ed è Carlo Giuliani, quindi mi sembra quantomeno complicato definirlo un assassino. Quella narrazione là è stata più che altro completamente illogica. Non mi interessa entrare in certe dinamiche... la questione famosa dell'estintore... in quella pagina la gente continuava a scrivere: "Perché, che doveva fà? Sennò quello lo ammazzava con l'estintore!". Da ragazzino me l'hanno tirato addosso, un estintore, io l'ho acchiappato e ritirato indietro... Se non l'avessi preso, forse mi sarei rotto il setto nasale. Però l'idea che [un estintore] sia una bomba termonucleare è comunque curiosa, ed è passata senza che nessuno se lo ponesse come domanda: sembra invece evidente [all'opinione pubblica] che lui lo volesse ammazzare perché gli ha tirato addosso un estintore. Sono cose abbastanza complicate da raccontare, però c'entrano poco con la questione della fama. Su quali sono gli svantaggi, in realtà no, io sono una persona che vive abbastanza male tutta questa situazione, perché mi sento in debito verso tanti soggetti, e quando mi chiedono disegni per questo o quello, mi viene sostanzialmente da dire di sì a tutti, e questa cosa mi strozza la vita, perché passo tutti i buchi liberi che c'ho il sabato e la domenica a smaltire una quantità inesauribile di locandine, manifesti, fumetti... Questo perché ho delle difficoltà a tracciare un confine netto tra il lavoro, la militanza, l'amicizia, etc. Ma questo è un problema che riguarda me, e semmai lo psicologo con cui dovrei parlare. Di svantaggi veri e propri di fatto non ce ne sono. Un litigio sulla pagina Facebook, di fronte al non poter pagare le bollette o il mutuo della casa, mi sembra veramente molto poco, insomma.

Pubblico: Volevo sapere, visto che hai sposato la causa curda, cosa ne pensi di Öcalan. Dall'Occidente è visto in un certo modo in linea di massima. È considerato da moltissimi paesi europei il padre di un'organizzazione terroristica, poi, per carità, per moltissimi altri non lo è. Volevo sapere la tua idea sul leader del PKK.

Z.: Allora, è una domanda complicata. Ti posso rispondere che sul suo ruolo... non ho le idee chiarissime. Sulla persona le ho. Penso che abbia lottato in generale per la liberazione del suo popolo. L'ha fatto in una fase che era quella degli anni Settanta, con gli strumenti che in tutto il mondo erano quelli degli anni Settanta, durante una guerra molto efferata, con dei golpe militari [nell'organizzazione] del nemico contro cui si scontrava. È stato molto coraggioso nel mettere in discussione le forme della sua organizzazione. Di fatto il PKK è una delle pochissime organizzazioni che ha fatto autocritica, ha cambiato paradigma, ma non per rinnegare, piuttosto per ammettere che il mondo è cambiato e le forme [di lotta] devono cambiare per stare al passo col mondo. Penso che abbia introdotto degli elementi teorici, anche dal carcere, che sono super-interessanti e super-umani, cioè ha fatto dei passaggi che hanno modificato tantissimo anche le forme di lotta in una direzione veramente [intrisa] di umanità. E quindi penso che di questa cosa gli vada dato atto. È chiaro che la maniera in cui poi viene utilizzato con l'iconografia etc., beh, ci sono delle cose che a noi sembrano strane.

Vedo un riconoscimento assoluto in Kurdistan: quando io dico che questa rivoluzione non è appannaggio di una piccola classe di intellettuali, di un'avanguardia, ma è passata a tutta la popolazione, vuol dire che sei vai a parlare nel Rojava con l'ultimo contadino ottantenne che ha passato la vita a pascolare capre, lui ti dirà: "La donna deve essere libera". Tu puoi chiedergli: "Perché?", e lui ti risponderà: "Perché l'ha detto Öcalan!". È ovvio che a noi faccia strano, inizialmente. Devi partire dal presupposto che Öcalan è molto utilizzato come nome, ma il contributo al dibattito teorico [sulla causa curda] è dato da molti nomi all'interno del PKK, la stessa Sakine [Sakine Cansiz, militante e co-fondatrice del PKK uccisa a Parigi nel 2013, n.d.A.] ha scritto un sacco di libri, è qualcosa di molto di più plurale di come ci arrivi dall'esterno. E poi questo utilizzarlo continuamente, più che con una questione di culto della personalità, c'entra anche con una questione di tutela di Öcalan stesso, e lo si può intendere parlandone con i Curdi, con gli stessi quadri del PKK. Quando Öcalan ha intrapreso quell'epopea di viaggi che l'ha portato prima in Italia, poi non ricordo, in Grecia, in Kenya, etc., che alla fine si è conclusa col sequestro da parte della polizia speciale turca che l'ha portato in carcere su un'isola [İmralı, un'isola-prigione dove è recluso solamente il padre fondatore del PKK, n.d.A.] dove sta da diciott'anni, lui, Öcalan, non era molto convinto di volerlo fare, inizialmente. Comunque, stando alle decisioni che sono state prese in quel momento da parte dell'organizzazione, era importante che lui rappresentasse il popolo curdo all'estero in quella fase, ed è finita in quel modo. Il fatto di continuare a parlare di lui in questi termini, intanto indica che non se lo sono dimenticato. Poi è anche una tutela per la sua vita stessa, perché poi è un attimo, se non se lo inc**a più nessuno, quello che può succedergli in quel carcere, dove non ha contatti per molti mesi con familiari, giornalisti, avvocati, [non ci vuole molto a] farlo sparire. Penso che sia una figura complessa, come ce ne sono state tante altre a cui questa complessità viene riconosciuta. È l'unico che continui a sostenere progetti di pace, che sono stati bocciati l'uno dopo l'altro. È una figura che a pieno titolo può stare tra quelle che propongono pace e stabilità per un'area politica che finora è riuscita a produrre solo dittature e scontri tra culture.

Pubblico: Domanda semplice. Stasera ti vanno bene i ceci?

Z.: [Ride]. Sono comunque cibo mediorientale, quindi figurati.

Pubblico: Due domande. Mi hanno colpito Ezel [Ezel Alcu, una rifugiata curda nel nostro Paese, che ha accompagnato la "Staffetta" di Zerocalcare e degli altri italiani fino a Kobanê, facendogli da interprete e guida, n.d.A.], che è stata fondamentale per voi come guida, e soprattutto la comandante Nasrin, che ha avuto una grande forza nel sostenere tutte le persone della comunità, con le macerie che si è dovuta portare sulle spalle. Che cosa ti hanno lasciato queste due donne?

Z.: Ezel mi ha lasciato un sacco di "accolli", perché ogni due giorni mi dice: "Mi fai la copertina per 'sta cosa? Mi fai 'sta cosa qui?". Quindi Ezel è una continua fonte di accolli [un volume di Zerocalcare si intitola tra l'altro L'elenco telefonico degli accolli, n.d.A.], però è una persona super-vitale, super-energica, etc. E la comandante Nasrin, in realtà, è quello che ho scritto nel libro: è una delle figure che riassume meglio tutta questa storia del Rojava, nel senso che è una persona super-determinata quando si parla dell'aspetto militare, della strategia da adottare; poi quando si tratta di andare al cimitero a incontrare le famiglie di persone [perite in guerra]... beh, lei è stata anche quella che molte delle persone morte in quel cimitero le ha addestrate personalmente, perché erano giovani della zona. Magari li ha conosciuti prima della guerra, poi allenati ed addestrati, ed ha un rapporto diretto con tutti i familiari, i fratelli, i genitori, non soltanto Curdi, pure Arabi, Assiri, etc. Riuscire a tenere insieme aspetto bellico ed umano, non considerarli carne da macello, ma uno per uno, nella loro umanità fatta di famiglie, è questo che secondo me bisogna sostenere in questo momento. Rojava è un faro di umanità anche rispetto all'Occidente stesso.

zerocalcare3Pubblico: Sempre riguardo a Kobane Calling, ma anche all'esperienza che lo ha generato. Getta una luce inimitabile sulla verità nuda e cruda, però vissuta attraverso i suoi occhi. Noi che siamo spiazzati dalla verità, come dovremmo reagire, qual è l'invito che vorrebbe rivolgerci?

Z.: Me sta a dà del Lei.

A.: È un personaggio, è Ferdinando del nostro corso di fumetto, è un talento.

Z.: Io non ho la presunzione di dire che ho la verità. Io ho raccontato una cosa molto parziale, da un punto di vista che è comunque molto schierato. Io sono andato lì per sostenere una parte in causa che è quella curda, senza la pretesa di fornire una visione generale di tutta la complessità del contesto. Il mio invito è quello di informarsi, non ti dico chiaramente di andare sul posto etc., ma è un po' più fattibile avere un occhio critico rispetto all'informazione che ti arriva, anche dal libro mio: se qualcosa non ti convince, valla a controllare, valla a guardare! È una delle cose più importanti nella vita, anch'io ho sentito quest'esigenza, soprattutto nel secondo viaggio. E poi non è che mi aspetti che dall'oggi al domani uno legga il libro e decida di andare a combattere in Siria o decida di sposare questa causa, o che sposterà chissà cosa. Credo sia un momento storico in cui è necessario ci sia un riconoscimento internazionale dell'esperienza del Rojava. Se non viene riconosciuta come importante, come una maniera di amministrare quel territorio in maniera pacifica, democratica, nel momento in cui si spartiranno la Siria dopo la guerra, i Curdi verranno spazzati via e la spartizione avverrà tra i potentati classici di quell'area. Se già le persone sanno che esiste un Rojava, se nei giornali ne parlano e negli ambiti politici sanno che esiste quella cosa, quanto meno vorrà dire che sarà un interlocutore di cui non si potrà fare a meno, non potremo fare finta che non esista quando ci sarà quella fase lì. Non è che ovviamente il libro mio determini questa cosa, ma penso che sia un tassello di ciò che possiamo fare in questa fase. Poi ci sono tante altre iniziativa, di raccolta, di sostegno, ma dal punto di vista del fumetto questo potevo fare.

Pubblico: Ma alla fine il tuo Cavaliere d'Oro preferito qual è?

Z.: Io sono Sagittario. Alla fine il Cavaliere del Sagittario è quello che ha salvato Atena, quindi come potrebbe non essere il mio preferito?

Pubblico: Due domande. Una sul personale, una sul politico. Ormai sei diventato una star internazionale lanciata anche fuori Italia, fuori Rebibbia, poi in Francia, e anche negli Stati Uniti, dove vieni citato perché si dice che frequenti i "terroristi" separatisti del PKK, senza che i media tengano conto del fatto che da anni non si parla più di separatismo, ma di un'altra cosa. La seconda riguarda un'attualità un po' diversa: è cambiata drasticamente la geopolitica della situazione, tutti sembrano essersi messi d'accordo, e la carta che si stanno giocando è l'abbandono del Rojava e dell'esperimento politico del confederalismo democratico.

Z.: La prima cosa, ti confesso, è passata un po' così, però c'entra pure il fatto che sono stato un cogli**e io. Nel senso: è vero che se una persona è stata in Iraq, in Siria, ha bisogno di tutta una serie di passaggi per decidere se farti entrare o no [negli U.S.A., n.d.A.], e questa cosa è molto drammatica nelle vite di chi è originario di quelle zone, perché magari, per il fatto di essere andato a trovare i familiari nelle zone d'origine, si trova a non poter rientrare negli Stati Uniti senza avere terzi gradi etc. Non è che io sottovaluti questa cosa qua. Nel senso, se lo sapevo prima, e facevo un altro colloquio, magari questa cosa non succedeva. In quell'occasione mi ha chiamato addirittura la Farnesina, dicendomi "se vuoi, in tre giorni ti facciamo il pass". La cosa è abbastanza ridicola, perché dovevo andare a fare una fiera del fumetto, non dovevo fare il cardiochirurgo e salvare una vita, per cui gli ho risposto che tanto l'evento sarebbe stato l'indomani e ormai non avrei fatto in tempo, per cui ho evitato di usare dei canali preferenziali per andare a una fiera del fumetto! È stata una grande rogna in quel momento. Su come si sono messi d'accordo, magari ti risponde pure Rosalba [Rosalba Marotta, membro di Collettiva AutonoMIA, n.d.A.]. È un'equazione complicatissima quella della Siria in questo momento, e mi sembra che l'unico fattore che si può togliere senza scontentare nessuno siano i Curdi. Nel senso, Assad scontenta la Russia, gli altri scontentano gli Americani, le uniche due forze che si possono sacrificare perché questa equazione in qualche modo funzioni sono l'ISIS, che sarà sostanzialmente spazzata via perché saranno altri con un altro nome che ne raccoglieranno l'eredità, ma con un altro nome andrà bene, perché potremo dire che l'ISIS sarà stata sconfitta, e i Curdi, che non hanno alcuno che gli garantisca una protezione in quell'equazione là.

Rosalba Marotta: Tra l'altro c'è una paura nel resto del mondo sull'esistenza di un progetto politico e amministrativo come quello del Rojava, che prevede una vera e propria democrazia partecipativa che parte dal basso, sicuramente parte da tutte le etnie, le culture, le minoranze religiose, però anche proprio un'organizzazione in cui la gestione quotidiana di tutto non è affidata allo Stato, a un governo centrale o una burocrazia, ma piuttosto a delle comunità o comitati di quartiere che si articolano in situazioni sempre più ampie, si confederano in situazioni sempre più ampie. Questa cosa è una paura per tutti gli attori della guerra in atto, perché la popolazione curda è divista in quattro Stati, che sono la Turchia, l'Iran, l'Iraq e la Siria, ma ci sono elementi del popolo curdo anche in Russia, e questa cosa potrebbe diventare molto pericolosa anche per la concezione occidentale del potere... anche il discorso della posizione delle donne... il modello proposto dai Curdi è di una novità straordinaria, e crea una grande preoccupazione nella gestione del potere sia nel mondo capitalistico sia nel falso socialismo (vedi Cina), per cui meglio che finisca prima possibile. Infatti vedete che ci sono delle locandine, non solo quelle di Zerocalcare... per i Curdi è un momento molto pericoloso, anche la Turchia è scesa in campo in maniera devastante, e c'è il pericolo di un massacro senza fine, di un vero e proprio genocidio. Ecco perché per l'anniversario della cattura di Öcalan, avvenuta l'11 febbraio 1999, è stata indetta a livello internazionale — avverrà a Strasburgo — una grande manifestazione di tutte le comunità curde. Quello che si chiede ad esempio all'Unione Europea è di schierarsi su quello che sta avvenendo in Turchia, dove è in atto il massacro di ogni tipo di libertà, e la restrizione di ogni agibilità di opposizione nel tentativo di creare una Turchia democratica. C'è un'attenzione come dice Zero non solo informativa, ma anche fattiva, di chi crede negli ideali che ci sono dietro al confederalismo democratico, perché le cose possano cambiare, e anche le manifestazioni diventano una cosa molto importante. La stessa manifestazione si terrà a Milano l'11 febbraio. Credo sia molto importante che ci si schieri su questa vicenda, con tutte le contraddizioni implicate in queste cose. Ma credo sia un progetto straordinario questo del confederalismo democratico.

Pubblico: Ma anche qui da Reggio possiamo fare qualcosa? Sia come movimento, sia come pressione sulle istituzioni?

R.: Avevamo inoltrato una richiesta al sindaco Falcomatà a settembre, perché anche lui, come Mimmo Lucano a Riace (Domenico Lucano, sindaco di Riace, assurto a notorietà internazionale per la sua esperienza coi migranti di Riace, è stato soprannominato "Mimmo u Curdu" proprio per la sua attenzione alla causa curda, n.d.A.), il sindaco di Reggio Emilia, de Magistris a Napoli e Orlando a Palermo, desse la cittadinanza onoraria a Öcalan, che comunque è leader indiscusso del popolo curdo. Aspettiamo ancora una risposta da parte del nostro sindaco. Questa, secondo i Curdi e l'ufficio di formazione curdo in Italia, sarebbe comunque una cosa importante: uno schieramento, una forma di pressione sulle nostre amministrazioni, sul nostro governo, perché si lavori per dare un'agibilità all'opposizione, [per dare visibilità] a quello che sta succedendo in Turchia in questo momento, una serie di arresti senza fine di tutta quella che è l'opposizione, giornalisti, accademici...

La serata con Zerocalcare ha coniugato interesse verso il fumetto e verso l'attualità geopolitica internazionale in un connubio riuscitissimo, con una grande risposta di pubblico. Ci auguriamo che Michele possa tornare presto a trovarci, magari per presentare il suo prossimo volume.